Massimo Donno è arrivato al secondo album solista ma i suoi percorsi musicali hanno origine lontane e tracce certe e diverse lungo tutti gli anni duemila: dal progetto iniziale limitrofo alle sue geografie salentine, nell’Allegra Brigata Bodhran; attraverso una continua rilettura del maestro De André del quale studia vita, opere e pensiero portando in scena spettacoli di teatro musica complessivi o riletture dei suoi album maggiori; con una carriera personale che vede un rapido cambio di rotta verso uno swing ironico ma già da altri abusato e l’attuale ritorno a casa con un fardello di pensieri nuovi e il maestro Tesi al fianco capace di focalizzare meglio la materia world su cui plasmare le attuali e purtroppo effimere certezze.
É un bell’album questo Partenze, ricco di melodie originali e suoni evocativi, di testi più amari e profondi, di riconsiderazioni umane indirizzate al senso e a un traguardo sempre più spostato. “Vento e polvere” è apertura di valore, composizione a quattro mani ricca di smanie, meditazioni di un viaggio verso sud in un paese alla deriva, visione rovesciata come la cartina in un bar del Sudamerica descritta da Erri de Luca, dove quello che sembra da qui un recesso del pianeta diventa la vetta di tutte le terre emerse, dipende solo da quale punto guardi il mondo: “Ecco, tutto quello che trasporto ce l’ho dentro / Come un fegato, una storia od un boccone / Che non scende e gonfia di risentimento / Vivo dentro l’astrazione di un pianeta senza centro”.
“Partenze” è un andare d’autore pieno di melanconiche rimembranze, tra le avvertenze di vita inadeguata da ripercorrere comunque sulle tracce di avi consapevoli. “A soli quarant’anni di distanza / La stanza di mio nonno era la mia / Io facevo la dieta, lui faceva la fame / Ed il suo cinema era la ferrovia / Signori, signori si muore davvero di malinconia / Ruggiva da un sigaro spento fingendo di distrarsi / E mia nonna in un quadro colore di seppia / Da dietro un cappello sembrava la Sastri. / Amletico fu il dubbio e chi me lo trasmise / E ciò che non mi ammazza poi non mi fa dormire”.
“Tienimi la mano”, è lo svelamento dell’illusione, la scoperta che certe storie ce le raccontano a/variate, i ruoli sono mutevoli come per l’imprenditore di “Una poltrona per due”, e non basta un motivatore per ricostruire illusorie bugie. “Attimi” è uno sguardo laterale a chi scartato si muove a passo dispari e fuori fuoco, è un’attenzione alla distonia vitale, alla marginalità. “Orazione”, anch’essa a quattro mani, è distratta visione di salotti tv dove tuttologi porporati vagano a vanvera senza sostanza, tassativamente escluso il divino: “Parla delle donne delle tasse sulla casa / Parla di lavoro dei programmi della Nasa / Parla di bambini degli asili in Mozambico / Parla di miseria post – moderno e falso antico / Parla di diritti, di preservativi e fame / Parla di conflitti, di mercati e di puttane / Parla di ottimismo, come un vero nobiluomo / Chiude la puntata si rifugia nel suo duomo”. Bellissima “Passi” che non consente ritorni completi, perché anche il passato cambia forma, o siamo noi che diversi non leggiamo più i segni di un alfabeto quasi dimenticato: “Dolore che si gusta come sale / Quel cencio bianco al sole di una strada / Lampioni gialli, fuoco e ciottolato, / Mi sento uno straniero dentro casa / I passi sono lenti e cadenzati / Rintoccano campane lente e sorde / La lucida stradina apre le labbra / Silente come un’arpa senza corde”. Grande pezzo anche “Il mio matrimonio”, capitolo a seguire de “Il mio compleanno” passato, perché resistere al consumo oggi è anche, semplicemente, continuare a volersi bene. Concetto ripetuto in “Fontane di suoni” dove anche i luoghi consueti acquistano maggior valore nella condivisione: “Guarda quanta nebbia che avvolge questi ulivi / Che con i rami tesi disegna volti che sembran cattivi / Le foglie secche in terra disegnano un tappeto / Che porta nei sentieri di vino di olio e aceto / È questo il nostro regno di terra sole ed aria / Ti do questa mia vita solitaria dolcissimo disegno”. Che poi i viaggi verso nord, verso una economica tranquillità, diventano spesso viaggi di rinuncia, di sacrificio, viaggi in “Salita” di inevitabile solitudine e di incompresi bisogni, di freddi non solo interiori perché, lo sguardo ai monti, il sole resta indietro. Chiude la bella “Binario”, ogni partenza è uno strappo che lascia tracce, “Che se la storia insegna a bocca chiusa / Dovremmo avere orecchie dentro il cuore / Ed il progresso una scusa per continuare a dormire / E l’incubo che è un sogno necessario / Nasconde più di quanto ci rivela / La mia felicità si ferma sulla linea gialla di un binario”.
L’incontro virtuoso tra Massimo e Riccardo è maturato in anni di frequentazione e la collaborazione è nata dalla stima reciproca, il risultato è un album tra i migliori dell’anno. Ci sarà una nuova partenza, e un nuovo polo verso cui proseguire un viaggio vitale che non può in alcun modo finire.
(Alberto Marchetti)