A quattro anni di distanza da “Butterfly Effect” gli A Toys Orchestra sono tornati con il loro settimo disco, un disco molto diverso dal precedente, un disco intimo, sofisticato, che si distanzia dalle mode e da ciò che “funziona” oggi in Italia, mettendo a nudo in maniera coraggiosa e splendida certi lati personali di Enzo Moretto e di tutta la band: il disco si chiama “Lub Dub” e proprio con Enzo ne abbiamo parlato anche in vista del tour estivo, iniziato da poco e che li porterà in giro senza sosta nel nostro Paese (per tutte le date: www.atoysorchestra.it).
Sono passati quattro anni tra Butterfly Effect e Lub Dub: come sono cambiati, se lo sono, gli A Toys Orchestra in questo periodo?
Non so se e in cosa siamo cambiati, la percezione dall’interno alle volte è falsata. A me ad esempio sembra che per certe cose non siamo cambiati neppure rispetto al primo disco, ma di certo inevitabilmente lo saremo, e anche tanto. Sarà che il fatto stesso di aver scelto il cambiamento (termine ambiguo di questi tempi) come una delle coordinate della nostra natura artistica, rende ancor più complicata tale percezione. Semplicemente cambiamo, ma non ce ne preoccupiamo.
È interessante come “Lub Dub” sia l’ennesimo mondo sonoro che voi mettete in scena, ogni volta puntando su una sfaccettatura diversa del vostro ricchissimo sound: avete mai avuto paura di ripetervi approcciandovi a questo settimo disco?
Certo, sette dischi cominciano ad essere un numero importante, e il rischio, soprattutto se nel tempo si è delineata una proprio scrittura, potrebbe effettivamente sussistere. C’è da dire però che troviamo il ripeterci o l’auto-citarci una cosa talmente noiosa e pericolosa che ce ne guardiamo bene, perché vorrebbe dire essere arrivati al capolinea. Quando abbiamo iniziato a lavorare a questo disco sapevamo di certo di non voler minimamente che si accostasse al suo predecessore. Volevamo fare un disco di ballads, lente, malinconiche, silenziose… Sono le uniche cose che ci eravamo prefissati, poi il resto è venuto da sé. Al punto da portare in studio le canzoni quando ancora erano incomplete, e far sì che le cose accadessero in maniera spontanea, senza alcuna premeditazione, senza artifizio… con la filosofia del “let it be”.
In un momento in cui va di moda il recupero di atmosfere elettro-dance e similari, voi fate un disco più intimo. È stata anche una scelta per staccarsi dalla miriade di dischi simili che stanno uscendo? O semplicemente è capitato così, un po’ per caso rimettendo insieme i pezzi?
Tutte e due le cose. Un po’ è capitato in maniera naturale di prendere quel tipo di direzione, ma d’altra parte quando abbiamo percepito quell’andazzo, abbiamo pensato di calcare la mano e accettare la sfida. Abbiamo pensato: “sai che c’è? Tiriamo il freno a mano e andiamo contromano”. Nel disco precedente poi i territori elettronici li avevamo ampiamente sperimentati, ne avevamo quindi fin sopra i capelli di certe soluzioni. E poi ci sembrava triste doverci accodare ad un filone per convenienza. Siamo al settimo disco, e siamo rimasti tra i pochissimi a cantare in inglese. La nostra unica forza sul mercato è fare il cavolo che ci pare in totale libertà. Se solo avessimo fatto l’insana scelta di metterci in linea con lo “stream” oltre ad essere tristi saremmo stati probabilmente anche goffi, per ovvi motivi generazionali. È pur vero che ad alcuni l’operazione è riuscita, ma noi proprio non ne siamo capaci… e non so veramente dirti quanto questo sia un limite o un pregio! Di sicuro la nostra scelta di libertà ha tante croci, ma anche le sue delizie.
Qual è il filo conduttore profondo di “Lub Dub” secondo voi che lo avete concepito?
Lub Dub è un’ode alla fragilità. Un mettere a nudo un certo tipo di sentimenti che sembrano essere sempre più tabù. Sembra che oggi tutto debba contemplare una certa forma di sicurezza, di coolness… Anche qualora si vesta il ruolo del “loser” di turno, così come si fa in abbondanza nel cosiddetto Itpop, tutto è sempre inevitabilmente permeato da un certo tipo di ironia beffarda, molto in linea con la dialettica social, il che ribalta le cose e aggiunge figaggine, coolness, anche al più scazzato degli outsider. Beh… sarà una questione puramente anagrafica, o semplicemente modi differenti di essere, ma io di giocare al poser depresso che se la ghigna, proprio non ne ho voglia. Mi stancherebbe, intendo fisicamente proprio. Un ruolo che non saprei vestire in maniera naturale. Preferisco a questo punto usare le canzoni come sfogatoio, un confessionale dove togliermi un peso. Il disco inizia con un brano che ripete ossessivamente “I need more than I need” / “ho bisogno più di quanto ho bisogno”. Qualcuno potrebbe trovarci una lettura deprimente. Ma per come la vedo io è l’esatto opposto. Metto a nudo il mio senso di incompletezza, il mio non bastarmi, il volerne di più. È a mio modo una forma trasversale di ambizione, di voracità emotiva. Il non volermi accontentare. Alle volte non bastarsi, l’aver “bisogno più di quanto si ha bisogno” è una forza propulsiva che ti slancia in avanti molto più che dormire tra due guanciali.
Chiusura sul tour, come sta andando e come state rendendo i nuovi brani rispetto anche al vostro repertorio storico.
Il tour è iniziato da poco. Siamo carichissimi, perché mancavamo da un pezzo dai palchi come A Toys Orchestra. Chi ci conosce sa benissimo che la nostra dimensione live è diversa da quella su disco. Necessitiamo di una maggiore fisicità e non risparmiamo neppure una goccia di sudore. Per adesso abbiamo fatto qualche giro nei club prima della chiusura dei locali invernali, ora tocca all’estivo outdoor. Le sensazioni sono molto positive, e siamo molto contenti. In scaletta ci sono ovviamente le canzoni del nuovo disco. Abbiamo pensato però di fare un piccolo regalo a chi da sempre ci segue, rimettendo in lista molti brani del passato che non suonavamo da tempo, e che alle volte i fans ci avevano “rinfacciato”. Adesso dopo tanto tempo è bello anche per noi risuonarli e soprattutto trovare un equilibrio tra passato e presente.
(Alessio Gallorini)
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