I Goodbye, Kings sono una band di sette elementi proveniente da Milano che ha pubblicato nel 2014 il debutto “Au Cabaret Vert” – incentrato sulle opere di Rimbaud, Toulouse Latrec e Masaoka Shiki – seguito due anni più tardi da “Vento” le cui storie raccontavano di leggende ispirate appunto all’elemento “invisibile” dei quattro conosciuti. Il 2019 vedrà il ritorno dell’ensemble attraverso A Moon Daguerreotype, in arrivo il 27 Maggio, disco strumentale che parte da una matrice post rock per diventare o mescolarsi ad altro: si possono scorgere scorci jazz, velature elettroniche ed un pizzico di post metal – grazie anche alla masterizzazione affidata a James Plotkin (Isis, Sunn0))) – come nel brano che da oggi per una settimana è in streaming e free download esclusivo su Shiver.
Con quattro dei sette musicisti si è anche cercato di entrare un po’ più in profondità sulle tematiche che hanno mosso la scrittura di questo disco (la tecnica del dagherrotipo), di cinema e degli equilibri che regolano una band a sette teste, dal canto loro con questo album sperano “di mostrare la nostra frattura, la nostra impotenza, la nostra fragilità come persone, musicisti ed esseri umani, attraverso uno sguardo antico, come il dagherrotipo, a quello che sta sopra di noi.”
Intanto una precisazione sul nome della band, chi sono i Re che “salutate”?
Davide: Il nome si lega ad un’idea di epoca nuova -quella Novecentesca e contemporanea- che saluta un certo tipo di visioni del mondo, ideali, valori e li ha sostituiti con altro (alcuni direbbero “nulla”, ma non entriamo nel merito..). In questo senso il nostro “A Farewell To Kings” – per citare i Rush – vuole dire salutare delle figure di senso, seppure antico, in favore di un non ben identificato progresso sociale, etico, civile e culturale – se vuoi, anche musicale – di oggi.
Il disco si intitola “A Moon Daguerreotype”, il dagherrotipo fu il primissimo procedimento fotografico per lo sviluppo di immagini che sicuramente diede il via ad una rivoluzione sfociata poi in altri abiti artistici. Cosa c’entra la luna del titolo e come pensate che la fotografia abbia cambiato la percezione e la visione dell’uomo, di se stesso e di ciò che lo circonda?
D: Questo è il punto centrale di quello che ci interessava descrivere. Il predominio sul tempo e sullo spazio che la fotografia ha portato a far nascere -soprattutto quella applicata allo spazio e al cosmo – è stata una vera e propria rivoluzione culturale. Nel senso proprio di “modifica della percezione” e nuova “scrittura”. Unire il fascino di questo processo, soprattutto nel suo primo offrirsi al mondo (pensiamo al cinema, alla letteratura, alla scienza), a quello che poi è diventato nella nostra “epoca delle immagini” e delle “false verità” ci è sembrato un viaggio importante che potesse essere raccontato in musica. La luna, dunque, profanata più dalle fotografie che dal piede dell’uomo sembra essere stata defraudata del suo fascino e quasi “dimenticata”. I limiti sono andati ben oltre.
Il primo album omaggiata Toulouse Lautrec, Rimbaud e Shiki. Questo invece trova sfogo più nella fotografia, c’è un fotografo o più di uno che hanno ispirato le canzoni?
D: Sicuramente Daguerre, vero visionario del tempo. E poi sicuramente i fratelli Lumiere e il grande Méliès, Tiphaigne de la Roche e il suo romanzo “Giphantie” (1760), che parla prima di tutti della fotografia in termini letterari. E ancora prima il grande filosofo cinese Mo Zi e i suoi studi cardine sull’ottica, a cavallo tra il quinto e il quarto secolo a.C. Fotografi sono quelli che scrivono con la luce, come suggeriamo in “Drawing With Light” e sono molto spesso artisti che possiamo chiamare “visuali”, con la loro pittura, musica e parole.
In realtà poi nel disco ci sono anche riferimenti al cinema come nel caso della canzone scelta per questa anteprima, “Méliès, The Magician”. Perché avete scelto di omaggiare il regista, attore e illusionista francese? Per scrivere il pezzo avete guardato uno dei suoi film?
D: Quando si parla di cinema si dovrebbe partire molto spesso da alcuni dei suoi canoni. “Voyage Dans La Lune” e il mitico proiettile-astronave che la colpisce nell’occhio resta un’immagine a cui tutti possono rifarsi e associare vari significati, così come i suoi Nativi Lunari. Méliès era un illusionista, un prestigiatore e ha messo questa arte visionaria nel suo cinema. Ha mischiato le carte e le ha tinte con la sua grande visione. Cose come questa, in ambiti come quelli artistici, sono davvero rare.
Luca A: Ognuno di noi ha il proprio background musicale è questa la cosa bella, non possiamo dire che stiamo facendo “un genere musicale particolare”, ma ne stiamo facendo diversi che allo stesso tempo generano qualcosa di unico. Definire la nostra musica non è semplice, ognuno ci trova quello che vuole perché ognuno l’ascolta in modo differente, in un modo unico. È un viaggio all’interno della nostra coscienza e su come ognuno di noi interpreta la realtà. Méliés ci è sembrata una figura chiave in questo. Ed è la prima vera e propria canzone del disco, il cui tema torna anche alla fine di “A Moon Daguerreotype”.
Riccardo: Lavoriamo sia singolarmente, che in session tutti assieme; difficile spiegare come nascono le nostre canzoni, non pensiamo subito a una struttura vera e propria.. solitamente si parte da un riff, lo ascoltiamo, e cerchiamo di suonarci sopra… la nostra migliore ispirazione è la condivisione del momento in cui gettiamo le basi di ogni singolo pezzo. Quella “magia” si consuma davvero quando tutti siamo lì, ad ascoltarci e parlarci delle sensazioni che ogni brano ci trasmette e che vogliamo trasmettere a chi ci ascolta.
E a proposito di ciò, domanda di rito per quasi tutte le band che hanno un certo approccio cinematografico, definite la vostra musica “instrumental soundtrack for a never made european retro movie”: cacciate fuori i titoli dei film che vi piacerebbe “musicare”?
D: A fine Giugno suoneremo in una piazza musicando un mash-up di film primo novecenteschi. Sicuramente ci sarà Méliès, i Lumière, Man Ray e i primi grandi cineasti. In più, con l’aiuto degli amici di Red Lights Video abbiamo riscoperto Jordan Belson, Antony Balch, Otto Piene e un sacco di altri bei matti.
R: Si, diciamo che a furia di sentire di etichette di generi musicali, ce ne siamo inventati uno tutto nostro!! Credo non ci sia migliore soddisfazione, che scrivere una colonna sonora di un film. Come titoli di film da musicare, ce ne sarebbero a migliaia, ma sicuramente, per me, “Tempi Moderni” di Chaplin.
Siete in 7, come amalgamate le varie sezioni: andate di session fino a tirar fuori qualcosa di buono oppure ognuno lavora in solitaria e lo propone agli altri? Insomma, in che modo nascono le canzoni dei G,K?
Matteo: In genere partiamo da un’idea musicale di base che arriva da uno di noi e da lì lavoriamo su sviluppo e arrangiamento. Per l’ultimo disco abbiamo avuto qualche difficoltà logistica visto che parte del gruppo vive all’estero per cui alcuni di noi si sono occupati della composizione del nucleo dei pezzi (chitarra, batteria e piano) registrando demo in casa e mandandoli agli altri; quando poi ci siamo trovati tutti abbiamo lavorato sull’insieme e sulle varie parti. Invece ad esempio “Targa Florio” dell’anno scorso è nata in sala con tutti insieme, è stata scritta jammando sul giro iniziale.
Luca A.: Non c’è una regola prestabilita, la nascita di ogni album è unica nel suo genere. C’è solo un punto in comune: la musica viene ispirata da quello che le immagini richiamano alla nostra mente. Si sceglie un concept generale, una storia per ogni brano e da li ci facciamo guidare (piccolo spoiler, sappiamo già da prima dell’uscita di quest’ultimo LP il tema del prossimo album e siamo già a lavoro). In “A Moon Daguerreotype” ad esempio, chi tra di noi si è sentito più ispirato ha proposto un tema principale per un brano lavorandoci in solitaria, o facendosi aiutare da qualcun altro della band. È nata così la “struttura”, una prima bozza armonica, ritmica e melodica di quello che sarà il brano finale. Per una questione logistica, abitando alcuni di noi all’estero o in altre città italiane, è stata poi fatta una pre-produzione embrionale e inviata a tutti i componenti della band. In sala prove poi nasce la vera magia, ognuno ha interpretato il brano a suo modo, seguendo però quello che è già stato scritto, mantenendone salde le idee e le regole musicali iniziali. Sono poche le modifiche alla struttura già esistente, ma il brano si evolve inevitabilmente per le influenze di ognuno di noi, diventa un viaggio, un percorso, un cocktail da cui ci si fa inebriare, è la musica che che prende vita. Ultima fase, ma non meno importante, va razionalizzato quello che è stato “vissuto” durante le prove. Si mettono a punto i suoni e l’effettistica, si cerca di capire quali sono le timbriche migliori, cosa si può aggiungere, togliere, cambiare e si cerca di interpretare il brano in maniera più critica.
Com’è nata la decisione di affidare il mastering a James Plotkin?
D: Sono sempre stato un fan degli Isis e pensare che il nostro lavoro meno “metal” potesse invece essere rifinito da uno come lui era sicuramente un intrigo.
M: Plotkin è un grandissimo musicista e un fonico eccezionale, personalmente ho avuto a che fare con lui in passato con i King Bong e, visto l’eccezionale lavoro svolto, abbiamo deciso di affidarci a lui. Il suo mastering ha dato ancora più vita, spazio e dinamiche al disco, davvero un lavoro incredibile.
Prossimi concerti in programma?
D: Faremo un release party al mitico Cox18 a Milano, sui Navigli, sabato 25 Maggio, due giorni prima dell’uscita del disco. Il week-end successivo saremo un po’ in giro in Italia a promuovere il disco: sicuramente a Roma e in Toscana e poi proseguiremo con altre date. Stiamo aspettando altre conferme per qualche data ma, come sempre, questo aspetto -soprattutto nel nostro Paese- è sempre piuttosto difficile.